BCFN YES! premia l’impegno dei giovani ricercatori su quattro continenti
Dall’Africa alle Americhe passando per l’Europa, i progetti vincitori del premio BCFN YES puntano su innovazione e collaborazione multidisciplinare, mettendo al centro le persone e le tradizioni locali.
“Quest’anno abbiamo ricevuto oltre 120 progetti che toccano tutti gli ambiti della sostenibilità ed è stata un’impresa davvero ardua per noi giudici scegliere quali includere nell’elenco dei finalisti”. Così Danielle Nierenberg, Presidentessa e Fondatrice di Food Tank, ha introdotto i tre vincitori del concorso BCFN YES! 2018, premiati a Milano nel corso del 9° Forum Internazionale BCFN su Alimentazione e Nutrizione. Classifiche a parte, i 10 finalisti sono tutti vincitori, anche e soprattutto perché sono riusciti a creare una rete di connessioni e collaborazioni con i giovani colleghi che niente potrà distruggere e che porterà sicuramente a grandi risultati futuri.
Persone, semi e suolo per l’innovazione agro-ecologica
Una geografa dell’Università di Edinburgo e uno scienziato del suolo statunitense che lavorano in in Belize e la stretta collaborazione con la popolazione Maya locale: parte da qui il progetto di “agro-ecologia partecipativa” di Cathy Smith e Henry Anton Peller premiato da BCFN e che punta a migliorare i raccolti e a rigenerare il suolo grazie ad approcci guidati proprio dagli agricoltori locali. “Quello che ci ha portati fino a qui è un lungo viaggio che si fonda soprattutto sul rapporto con la gente e il lavoro svolto quotidianamente assieme agli agricoltori Maya” spiega Henry, ricordando l’importanza delle reti sociali e della fiducia conquistata sul campo. “Niente di ciò che facciamo è svolto senza la loro approvazione” aggiunge. In questo scambio reciproco si lavora con un approccio definito “farmer-to farmer learning” per diffondere le informazioni tra gli agricoltori e si presta attenzione a tre componenti principali: i semi, il suolo e le persone.

Così facendo si selezionano e si scambiano le sementi anche allo scopo di preservare la grande biodiversità locale e grazie all’utilizzo delle cosiddette “cover crop”, ovvero coltivazioni che non danno reddito immediato ma aiutano a migliorare la fertilità del terreno, si cerca di ottimizzare la resa della successiva coltura. “Abbiamo costruito molto e stiamo ancora costruendo, la scienza da sola non basta servono le relazioni e la collaborazione” conclude Cathy.
Una rivoluzione silenziosa in Etiopia
Martina Ocelli si è mossa da Pisa con i suoi studi in economia per arrivare fino in Etiopia, “un paese magico” come lo definisce lei stessa, culla della biodiversità e terra di piccoli agricoltori che in 8 casi su 10 vivono di agricoltura sussistenza. In questo scenario è ambientato il progetto che la ricercatrice ha posto all’attenzione degli esperti BCFN e che si pone l’ambizioso obiettivo di dare voce e forza all’enorme bagaglio di conoscenze tradizionali, quel “collective knowledge” su cui ancora oggi si basa gran parte dell’agricoltura in Etiopia. Non è solo condividere le sementi e gli strumenti di lavoro: è qualcosa di più, qualcosa di intangibile ma di molto importante che si vorrebbe valorizzare e trasformare in un avanzamento per questi agricoltori. Il progetto, fortemente trasversale e multidisciplinare, guarda alla sostenibilità da diversi punti di vista e prevede sondaggi tra gli agricoltori locali, raccolta di campioni di suolo, analisi fisico-chimiche e infine la proposta di nuove policy ad hoc.

“Sono lieta che BCFN sia riuscita a cogliere tutte queste sfumature e abbia deciso di sostenerci nel nostro viaggio all’interno di questa rivoluzione silenziosa basata sul sapere collettivo” ha detto la ricercatrice.
Le colture idroponiche arrivano in Africa
Non è semplice creare coltivazioni idroponiche e lo è ancora di meno in Africa dove spesso infrastrutture e tecnologie faticano ad arrivare e l’acqua è un bene sempre più prezioso. Questo non ha fermato tre giovani donne africane che hanno lanciato una grande sfida: “alimentare l’agricoltura sostenibile attraverso la gestione bio-integrata dei raccolti tra i piccoli agricoltori in Tanzania”. Le tre ricercatrici sono Geraldine Lengai e Becki Aloo dal Kenia e Margaret Gumisiriza Ssentambi dall’Uganda che grazie ai loro diversi background accademici e alla loro profonda conoscenza del territorio sono riuscite a disegnare un progetto su misura per il loro continente. “Per creare gli impianti, invece del più tradizionale pvc utilizzeremo materiali locali come il bamboo, invece dei fertilizzanti e pesticidi chimici i rizobatteri e pesticidi di origine botanica, più sicuri e sostenibili” commentano le giovani ricercatrici.

Il loro progetto, che si concentrerà inizialmente su tre diversi vegetali, prevede questionari iniziali, preparazione dei trattamenti, esperimenti e raccolta dati, analisi dati e report finale oltre alla disseminazione finale delle informazioni raccolte.
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